Social e diffamazione

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Non basta una critica – veniale – sul social network per licenziare il dipendente. La Corte di Cassazione con al sentenza 13799 /17, depositata ieri, dà seguito alla giurisprudenza in tema di conseguenze sanzionatorie del licenziamento disciplinare illegittimo, nel regime disciplinato dallarticolo 18 dello Statuto dei lavoratori, come modificato dalla legge n. 92 del 2012.
All’origine del contenzioso, il licenziamento intimato a una lavoratrice per aver postato, sulla propria pagina Facebook, espressioni il cui contenuto veniva ritenuto dal datore di lavoro «oggettivamente diffamatorio, sia nei confronti della stessa società che nei confronti della legale rappresentante». Tali espressioni divenivano oggetto di valutazioni contrastanti da parte dei giudici di merito. In primo grado, infatti, il Tribunale confermava il licenziamento ritenendo che le stesse integrassero una «gratuita ed esorbitante denigrazione» della società, e che fossero altresì caratterizzate «dalla precisa intenzione di ledere, con l’attribuzione di un fatto oggettivamente diffamatorio, la reputazione del proprio datore di lavoro». All’opposto, la Corte di Appello riteneva il licenziamento illegittimo e condannava la società a reintegrare la lavoratrice e a risarcirle il danno in misura pari alla retribuzione globale di fatto dal momento del licenziamento al saldo. Avverso tale ultima decisione ricorre per Cassazione la società datrice di lavoro, lamentando che la Corte di Appello non avesse osservato il principio (enunciato da Cassazione 23669/2014) secondo cui il nuovo articolo 18 riconosce la tutela reintegratoria «solo in caso di insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, sicché ogni valutazione che attenga al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità della condotta contestata non è idonea a determinare la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore». Le doglianze della società, tuttavia, sono state ritenute infondate dalla Cassazione, che richiamando i propri precedenti in materia, ha precisato come l’insussistenza del fatto contestato debba comprendere anche le ipotesi «del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità» (Cassazione n. 20540 del 2015), nel senso che l’assenza di illiceità di un fatto materiale pur sussistente, «deve essere ricondotta all’ipotesi, che prevede la reintegra nel posto di lavoro, dell’insussistenza del fatto contestato, mentre la minore o maggiore gravità (o lievità) del fatto contestato e ritenuto sussistente, implicando giudizio di proporzionalità, non consente l’applicazione della cosiddetta tutela reale» (Cassazione n. 18418 del 2016).