Risarcimento Processo lungo

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Il nostro ordinamento prevede rimedi specifici qualora il processo – sia esso penale, civile o amministrativo – comporti un dispendio di tempo talmente elevato da vanificare, in concreto, le aspettative di giustizia dei ricorrenti e leda, in tal modo, il principio di effettività della tutela giurisdizionale. In particolare, la L. 89/2001, cosiddetta Legge Pinto, prevede il rimedio dell’equa riparazione in caso di irragionevole durata del giudizio. La Corte di cassazione, con la recente sentenza n. 14607 del 12 giugno 2017, è stata chiamata a pronunciarsi sul caso di alcuni ricorrenti che proponevano domanda di equa riparazione per violazione dell’art. 6 della C.E.D.U. per un giudizio amministrativo del 1995 (in materia di pubblico impiego), definito nel 2006, volto all’ottenimento dall’INPDAP – per il calcolo dell’indennità di buonuscita – dell’indennità integrativa speciale in misura del 60% (e non, come effettuato dall’Istituto, per la quota dell’80% del 60% della stessa indennità). La Corte d’appello aveva già precedentemente respinto con decreto il ricorso, motivando il rigetto della domanda di equa riparazione sotto il profilo della temerarietà della lite azionata dai ricorrenti. Accertava anzitutto che il giudizio era stato introdotto nel 1999 e considerava non sussistente il danno non patrimoniale da irragionevole durata del processo, alla luce della “presumibile consapevolezza circa la infondatezza della pretesa azionata nel giudizio presupposto, in base all’univoco orientamento giurisprudenziale affermatosi nella Corte di Cassazione dal 2000 e scrutinato anche dal Consiglio di Stato e dalla Corte Costituzionale”. Tale orientamento sanciva che il computo da farsi per il calcolo della suddetta indennità fosse quello dell’applicazione del 60% dell’80% della quota di indennità goduta in corso di rapporto, come applicato infatti dall’Inpdap. Presentato ricorso in Cassazione, i ricorrenti illustravano con un unico motivo (violazione art. 2, commi 1 e 2, della legge n. 89 del 2001, artt. 6 par. 1 e 53 CEDU, art. 111 Cost.) come l’esclusione del danno non patrimoniale, basata sulla mancanza ab origine dell’interesse al ricorso, fosse stata argomentata su alcuni precedenti giurisprudenziali senza tenere in considerazione le ulteriori valutazioni di merito, effettuate dallo stesso Tar Lazio, di altre numerose pronunce. La Corte di cassazione ha respinto le istanze dei ricorrenti, rigettando il ricorso con condanna alle spese e condividendo l’impianto prospettato dalla Corte d’Appello. Secondo la ricostruzione dei giudici di legittimità nel caso di specie, infatti, trovano applicazione i costanti precedenti in materia (Cass. n. 255095 del 2008; Cass. n. 21088 del 2005), valevoli nei casi in cui “l’ansia e la sofferenza, che normalmente insorgono nella persona quali conseguenze psicologiche del perdurare dell’incertezza sull’assetto delle posizioni coinvolte dal dibattito processuale e nelle quali si sostanzia il danno non patrimoniale per l’eccessivo prolungarsi del giudizio, restano in radice escluse in presenza di una originaria consapevolezza della inconsistenza delle proprie istanze, dato che, in questo caso, difettando una condizione soggettiva di incertezza, viene meno il presupposto del determinarsi di uno stato di disagio”. L’esito sfavorevole ottenuto in sede giudiziale, pertanto, e i successivi danni non patrimoniali dovuti alla lunghezza del processo, sono in sostanza responsabilità dei ricorrenti, a fronte del fatto che essi hanno volontariamente scelto di insistere col procedimento “nella consapevolezza della infondatezza della loro pretesa, che costituiva un chiaro tentativo di forzare il dettato normativo”.