Disciplina delle misure di comunità per i minorenni. La sentenza della Corte Costituzionale

Non sono fondate le censure alle norme sui limiti massimi di pena previsti per consentire ai condannati minorenni di accedere alle misure di comunità dell’affidamento in prova ai servizi sociali e della detenzione domiciliare. Tali norme non introducono un automatismo contrastante con la funzione di reinserimento sociale del condannato né comprimono le esigenze di individualizzazione del trattamento penitenziario minorile, derivanti dai principi costituzionali di protezione dell’infanzia e della gioventù e di finalizzazione rieducativa della pena. Resta fermo, peraltro, che «ai medesimi fini, assetti più flessibili e attributivi di maggiori spazi per una valutazione giudiziale – così come era stato previsto, per entrambe le misure penali di comunità in esame, dall’originario schema governativo di decreto
legislativo – risulterebbero particolarmente appropriati».

È quanto si legge nella sentenza n. 231 con cui la Corte costituzionale ha rigettato le censure formulate dal Tribunale per i minorenni di Brescia agli articoli 4, primo comma, e 6, primo comma, del d.lgs. n. 121 del 2018. Il giudice a quo aveva sostenuto che, nel subordinare l’accesso alle misure alternative a condizioni analoghe a quelle previste per gli adulti, le disposizioni censurate conterrebbero un automatismo e impedirebbero una valutazione individualizzata dell’idoneità della misura a conseguire le preminenti finalità di socializzazione cui è volta l’esecuzione penale minorile.

La Corte ha però osservato che la disciplina delle misure di comunità per i minorenni si discosta da quella prevista dall’ordinamento penitenziario per gli adulti e, anzi, amplia le possibilità di applicazione delle misure extramurarie, come richiesto dalla
legge delega.

La sentenza riconosce, inoltre, che le disposizioni censurate realizzano una ponderazione degli interessi coinvolti che è espressione non irragionevole di discrezionalità legislativa.