Morto in carcere: dirigente sanitario responsabile

medico_legge jpgLa possibilità, per il detenuto, di fruire di cure mediche appropriate, segna il confine di demarcazione tra compatibilità e incompatibilità delle sue condizioni psico-fisiche con il regime carcerario. Ergo: il presupposto della privazione della libertà personale può passare soltanto per un controllo costante delle condizioni di salute della persona. Non ha dubbi la Cassazione – sentenza 25576 depositata il 23 maggio – nel prendere in esame il caso di un carcerato morto nel 2013, nel carcere di Rebibbia, per insufficienza cardiorespiratoria dovuta a polmonite. Detenuto in isolamento nel reparto G11 del penitenziario romano, l’uomo era risultato sofferente anche di epatite acuta. Omicidio colposo l’imputazione sollevata nei confronti dei medici del reparto e del dirigente preposto ai controlli sanitari. A quest’ultimo, in particolare, si contestava di non aver sottoposto il caso a un check up più approfondito e costante e di aver limitato la visita medica a un colloquio anamnestico, saltando l’esame generale che si compone di ispezione, palpazione, percussione, auscultazione. Nessuna responsabilità in capo al dirigente, secondo il Gup del Tribunale di Roma, che, interpretando alla lettera l’articolo 11 della legge sull’ordinamento penitenziario, aveva ribadito la stretta correlazione tra visite mediche alla presenza di segni clinici evidenti o alla richiesta del detenuto. Immediato il ricorso del procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma, che ha imputato a negligenza l’atteggiamento del personale sanitario. A pesare soprattutto il fatto che – come documentato dal diario clinico – nei giorni antecedenti la morte dell’imputato, egli non sia stato sottoposto ad alcuna visita medica. Un check up – è convinto il procuratore – avrebbe invece fatto scattare il sospetto di una infezione all’apparato respiratorio e messo in moto una serie di interventi strumentali e di terapie conseguenti. Contro la sentenza ricorrono in Cassazione anche il padre e la figlia del detenuto, citando l’articolo 43 della Raccomandazione del Consiglio d’Europa agli Stati membri, che prescrive particolare attenzione alla salute dei detenuti in isolamento. Favorevole a questi orientamenti la Cassazione, che annulla la sentenza impugnata e rinvia per un nuovo esame al Tribunale di Roma. Nonostante le disposizioni dell’articolo 11  non si può ignorare la previsione di un obbligo di assistenza sanitaria mediante riscontri con cadenza quantomeno mensile, se non settimanale, indipendentemente dalle richieste degli interessati e da attuare in relazione alla peculiarità del caso concreto.