Rischio contagio

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In caso di malattia infettiva, la struttura sanitaria è obbligata a informare i familiari del malato consenziente sul rischio potenziale in cui anche essi incorrono. Avendo il malato fornito una autorizzazione preventiva, non è necessario il visto del Garante e una eventuale negligenza da parte della Asl viene ascritta alla condotta omissiva, poiché da essa può derivare una lesione dell’integrità, o della salute della collettività. In virtù di questo principio la Cassazione (sentenza numero 11994 depositata il 16 maggio) ha confermato per l’Azienda sanitaria provinciale di Crotone la condanna al pagamento di 13mila euro quale risarcimento del danno per un caso di epatite C contratta da un uomo nei primi anni del 2000. L’uomo di origine romana si era rivolto al tribunale di Crotone nel 2002, sostenendo di aver contratto il virus HCV dalla moglie, vittima di trasfusioni infette nella Asl 5 della città calabrese. A fondamento della propria pretesa risarcitoria – riconosciuta dalla Corte di appello – aveva posto il fatto che, pur consapevole dal 2000 della patologia della moglie, la struttura ospedaliera non lo avesse mai informato impedendogli, pertanto, di adottare le cautele necessarie per proteggersi. Il caso ha sollevato la delicata questione di bilanciamento tra fra diritto alla riservatezza del paziente e tutela della salute di terzi. Nel ricorso presentato dall’azienda ospedaliera contro le figlie del malato – nel frattempo deceduto – il ricorrente fa infatti appello alla «capacità di intendere e di volere» della donna da cui è partito il contagio. Questo – secondo la struttura sanitaria – avrebbe esonerato il personale medico dal divulgare informazioni private anzi, lo avrebbe vincolato all’obbligo di riservatezza: dal combinato disposto tra la legge 675 del 1996 e il Codice deontologico del 1998, emergerebbe infatti che solo in situazioni in cui il paziente non è in grado di disporre del suo diritto alla privacy, quest’ultimo soccombe rispetto all’esigenza primaria della tutela della collettività. Secondo i ricorrenti, inoltre, poiché non era stato accertato che il disturbo bipolare misto «con manifestazioni incongrue dell’umore» sofferto dalla donna avrebbe potuto determinare una sua incapacità, neanche la sua autorizzazione a fornire informazioni private sul proprio stato di salute ai familiari, le avrebbe impedito di farlo lei personalmente. Ma – aveva già fatto notare la Corte di appello – è proprio dall’autorizzazione fornita dalla donna (che si sostituisce al parere del Garante ) e non dalla valutazione delle sue facoltà mentali, che deriva l’obbligo informativo da parte della Asl. In casi come questi – ribadisce la Cassazione – attivarsi è un dovere. E ciò con richiesta di autorizzazione al Garante, quando necessario, o – in alternativa – con l’iniziativa diretta. Potere e dovere di trattamento non devono essere confusi e questo in linea con quanto prescritto dall’articolo 23 della legge 675 del 1996, per prevenire eventuali rischi di danno ingiusto (articolo 2043 del Codice civile).